Le inafferrabili realtà di Silvia Camporesi
Le inafferrabili realtà
di Silvia Camporesi
Silvia Camporesi è la nostra Guest Curator per il 2024 e ne siamo letteralmente entusiasti.
Da oltre vent’anni seguiamo il suo lavoro e chiunque abbia un poco di conoscenza del mondo della fotografia artistica avrà certamente già visto molti dei suoi scatti.
Attraverso questo articolo-intervista cercheremo di fare una summa di tutto ciò che occorre sapere sul lavoro di Silvia Camporesi, nel nostro tradizionale formato breve e di semplice lettura. Speriamo attraverso i testi, ma soprattutto attraverso le foto di Camporesi, di far nascere in ciascuno il desiderio di approfondire ulteriormente la conoscenza di questa artista e del vasto portfolio di immagini che ha sviluppato nel corso di una carriera ricca di lavoro e di riconoscimenti.
Inoltre vi racconteremo del progetto che la nostra Guest Curator sta realizzando in collaborazione con All’Origine…
Ora mettetevi comodi perché se già non lo siete, state per diventare fan di Silvia Camporesi!
La mensa, isola di Pianosa (serie “Atlas Italiae”, 2015)
Ottobre 2023, Silvia Camporesi si presenta al nostro showroom in un’assolata mattina Emiliano-Romagnola di metà autunno.
Ha uno zaino con le sue attrezzature e in mano tiene un grande libro viola. Non è la prima volta che ci fa visita: ha già scattato diverse foto qui e in passato ha anche preso a prestito diversi oggetti che ha poi utilizzato nelle sue fotografie.
La nostra attenzione è catturata dal libro che tiene in mano. È Mirabilia (!), la sua ultima fatica editoriale, fresco di stampa, che stiamo vedendo dal vivo per la prima volta! Mirabilia segue il progetto Atlas Italiae al quale è accomunato dal tema della “ricerca di luoghi italiani”. Il nostro Paese è da sempre una fonte inesauribile di ispirazione ed un oggetto di indagine per Silvia Camporesi.
Mirabilia è un’antologia visiva di meraviglie italiche naturali e artificiali, famose e poco note, selezionate sulla base di un criterio che farei fatica a decifrare se dovessi metterlo in parole, ma che mi risulta incredibilmente chiaro in termini di sensazioni che emanano – in modo sorprendentemente omogeneo – da tutti questi scatti:
Il denominatore comune, basta poi leggere il titolo, è proprio il senso di meraviglia e di assoluto. È come se ogni immagine facesse riferimento a qualcosa di più ampio e astratto che l’immagine stessa suggerisce ma non mostra. Parafrasando le parole che ha detto il filosofo Umberto Galimberti parlando del lavoro di Silvia Camporesi: la sua ricerca è in ultimo la bellezza e la vera bellezza è sempre riferita a qualcosa di astratto e intangibile. Ci fa sentire come ci fosse qualcosa che ci sfugge e per questo la bellezza è spaventosa.
Silvia Camporesi è Italiana, romagnola, precisamente di Forlì, ma non è ai suoi natali che si deve guardare per capire dove ha origine il suo modo di fotografare. Non c’è infatti testo su Silvia Camporesi che non menzioni la sua formazione filosofica.
Camporesi ha conseguito la laurea in filosofia presso l’università di Bologna nel 2000 e ha sempre sostenuto che sia stata proprio la filosofia a fornirle il metodo operativo che ha trasferito alla fotografia. Vi sono diverse interviste in cui cita la sua tesi di laurea sull’opera di Ludwig Wittgenstein. E anche recentemente, nel 2017, è tornata a una esplicita citazione di questo filosofo austriaco titolando un proprio lavoro “Il mondo è tutto ciò che accade” con una frase che rappresenta proprio il primo postulato del Tractatus Logico-Philosophicus pubblicato da Wittgenstein nel 1921.
A questo punto si rende necessaria una piccola e superficiale digressione sull’Austriaco. Forse ci permetterà di capire di più su questo metodo filosofico applicato alla fotografia:
In parole estremamente semplici Wittgenstein era un Positivista Logico e riteneva che lo scopo della filosofia sia investigare la realtà scientifica aiutando l’umanità a mettere ordine, per così dire, e a trovare principi universali. Il progresso la sua bussola.
Nel suo Tractatus Wittgenstein osserva che tutto ciò che accade esiste come fatto isolato ed è quindi realtà oggettiva e indiscutibile. La filosofia non deve speculare sulle relazioni tra cose che accadono ma occuparsi solo di ciò che è fattuale. Aggiunge che il linguaggio è il codice universale che le persone utilizzano per riportare questi fatti. Più tardi nella sua carriera Wittgenstein cambierà opinione sull’universalità del linguaggio, ma ne riparleremo più avanti.
Parco delle Biancane: Monterotondo Marittimo, Toscana (serie “Mirabilia” , 2023)
La casa volante: Castelnuovo Magra, Liguria (serie “Mirabilia”, 2023)
Cava di marmo: Carrara, Toscana (serie “Mirabilia”, 2023)
Villa Guastavillani: Bologna, Emilia Romagna (serie “Mirabilia”, 2023)
G: Guardiamo le foto che hai raccolto in Mirabilia e scopriamo questa inaspettata coralità emotiva dei luoghi che hai fotografato, i quali sicuramente non avremmo mai immaginato di poter accostare prima di vederli attraverso il tuo occhio. Ritieni di aver fatto tuoi alcuni degli insegnamenti della logica e della dottrina positivista? Stai anche tu cercando di aiutarci a fare ordine attraverso i tuoi progetti? Esiste un’idea di progresso che ti sta guidando attraverso il susseguirsi dei tuoi lavori?
C:Credo di poter affermare che ogni mio lavoro sia frutto innanzitutto di una ricerca di pensiero e poi dell’applicazione di un metodo specifico che ho messo a punto negli anni. Sicuramente la laurea in filosofia è stata fondamentale per arrivare alla formazione che ho ora e non a caso ho dedicato a Wittgenstein uno dei miei primi lavori. Mirabilia è, come noti, una serie che in maniera ordinata mette insieme i luoghi più insoliti e bizzarri d’Italia. Alcuni di essi sono caratterizzati da un grande caos e catalogarli, fotografarli in maniera composta e metterli all’interno di un libro, è stato un modo per assegnare un nuovo ordine alle cose. Sembra che non ci sia un collegamento fra il fotografare e la filosofia, fra la logica e l’ordine; invece in questi anni ho visto magicamente snodarsi il mio percorso di studi in ambito artistico, fotografico, sempre in correlazione con gli studi precedenti, a dimostrazione che la filosofia è un’onniscienza e può essere applicata ad ogni ambito della vita. Non parlerei di progresso, ma di evoluzione, di un cammino che, attraverso perdite e cadute, risalite e rinascite, delinea una direzione sempre più precisa.
G: In merito al tuo percorso artistico, e tenendo a mente le parole di Galimberti: la bellezza è più uno strumento o una finalità nei tuoi lavori?
C: Il concetto di bellezza è qualcosa che sento connaturato alla fotografia, anche se quella che cerco è una bellezza costruita sulle imperfezioni, su qualcosa che non è immediatamente visibile. Una bellezza sottile, non urlata, a volte inquietante. La finalità è costruire progetti complessi, di grande portata, che abbiano una coerenza nel contenuto e nell’estetica, che siano di fatto riconoscibili. Nel mio lavoro è anche insita una sfida alla facilità contemporanea della fotografia, attraverso la produzione di imprese complesse, come appunto Mirabilia, o il precedente Atlas Italiae dedicato ai luoghi abbandonati dell’Italia.
Foto dalla serie “Virginia”, 2000
G: Dallo studio della filosofia hai imparato l’importanza di definire dei buoni insiemi di regole ed essere autodisciplinati nel seguirle. Potresti raccontarci del tuo primo lavoro pubblicato, quello che ti è valso il premio Guercino nel 2000 ed ha messo il tuo nome sulla mappa globale della fotografia d’arte? Come è nato, come fu ricevuto e perché è ancora oggi importante?
C: Quel lavoro si intitola “Virginia” e racconta della casa di mia nonna. E’ il primo lavoro fatto con la pellicola a colori, perché fino a quel momento scattavo in bianco e nero e passavo molte ore a stampare in camera oscura. Virginia è frutto di numerose visite a mia nonna nella sua casa popolare, nell’arco di un anno. La finalità era raccontarla attraverso gli oggetti della sua casa, senza mostrarla in volto. Quando ho iniziato a far circolare quelle immagini molte persone riconoscevano frammenti della propria storia personale, dettagli che riportavano quelle fotografie personali in un percorso collettivo. Pertanto Virginia era diventata la “nonna italiana”, che rappresentava uno stile di vita di quegli anni, e proprio il fatto che mancasse la sua identità rendeva quelle foto “ampie”. Quella serie ha vinto diversi premi, oltre al Guercino, e per me rimane importante perché definisce il mio ingresso nel percorso artistico professionale.
G: Ci hai parlato del tuo lavoro più recente e del primo in assoluto. È chiaro come ci sia stata una significativa evoluzione e con le risposte alle prossime domande vorrei ci aiutassi a disegnare la rotta che hanno tracciato i tuoi progetti nel loro susseguirsi. Prima però voglio fare una confessione a te e ai nostri lettori. Mirabilia si apre con una foto che hai scattato nel nostro showroom. Di questa cosa non ero al corrente finché non me la sono trovata tra le mani aprendo il tuo libro. È stata una sorpresa e un grande onore, ma più giravo le pagine più mi sentivo pervaso da una sorta di sindrome dell’impostore, come se questo showroom che pur mi piace così tanto, non fosse all’altezza di essere accostato a quei luoghi meravigliosi. Forse si tratta solo del fatto che questo posto lo conosco troppo bene per coglierne la magia e il mistero, davvero non lo so, spero sia solo questo!
Orbene, alla mia domanda potrai rispondere anche solo con un sì o un no, ma ti prego di raccontarci di più se lo desideri: nei primissimi anni della tua carriera, prima di diventare l’artista acclamata che sei oggi, soprattutto in considerazione della tua formazione che non perteneva alle arti visive, qualcuno o qualcosa ti ha mai fatto vivere la sindrome dell’impostore? Se sì ritieni questi eventi un punto nodale o trascurabile nell’evoluzione della tua ricerca?
C: Bella l’idea della sindrome dell’impostore!
Di fatto non mi è mai successo, anzi forse mi è accaduto il contrario: una laurea col massimo dei voti in filosofia sembrava a molte persone sprecata in ambito fotografico e artistico in generale. Ma credo che ogni passo di un percorso personale acquisti senso con lo scorrere del tempo. La filosofia mi ha aiutato ad avere un metodo, la tecnica l’ho appresa col tempo ed oggi la fotografia è qualcosa che uso ad ampio spettro, attraverso i progetti, le conferenze, le presentazioni.
Il Bosco Bianco (serie “Qualche volta di Notte”, 2012)
G: Uno dei lavori più conosciuti dei tuoi primi anni di carriera è il ritratto di Ofelia col quale hai trasposto in fotografia il famoso quadro di Millais del XIX secolo. Lo hai indicato più volte come un punto culminante della tua ricerca sulla rappresentazione fotografica dell’acqua. Nel corso degli anni hai infatti indagato l’acqua in tutte le sue forme; l’hai fotografata come soggetto e hai fotografato attraverso l’acqua. Penso a Il paese Sommerso (2020), La Terza Venezia (2011) ma anche Qualche Volta di Notte (2012) in cui l’acqua è presente in forma di nebbia, che è un altro elemento che ricorre in moltissimi tuoi scatti. C’è qualcosa di connaturato all’acqua che credi ti abbia attirato e condizionato a perseguire questa ricerca?
C: L’acqua è sostanzialmente il mio elemento naturale, quando nuoto mi trovo ad avere le idee migliori. La prima volta che ho fotografato un oggetto e poi una figura umana immersa in un fiume o nella mia vasca da bagno, ho capito il potenziale di questo elemento che modifica forme e colori e li avvolge in una dimensione di mistero. Così negli anni sono ritornata più volte ad utilizzarla, sorprendendomi ogni volta dei risultati ottenuti. L’ultimo lavoro che citi, il paese sommerso, è stata una serie particolarmente complessa: si tratta del paese di Fabbriche di Careggine, sommerso nel lago di Vagli in Toscana sotto 80 metri d’acqua. Il lago negli anni è stato svuotato alcune volte e il paese è riemerso, coperto dal fango. Non potendo scendere sott’acqua per fotografare il paese, l’ho fatto ricostruire in miniatura e l’ho fotografato dentro ad un grande acquario, come fosse reale. Questa avventura complessa è stata significativa e in un certo senso ha concluso un ciclo molto lungo di lavori dedicati all’acqua.
Ofelia, 2004
Il Paese Sommerso, polittico (serie “Forzare il paesaggio”, 2019)
G: Ricordo dai miei (purtroppo molto svogliati) studi liceali che Aristotele sosteneva che le conoscenze si costruiscono sempre su conoscenze pregresse e perciò promosse la realizzazione di biblioteche e la conservazione del sapere. E so che tu sei nota per essere una vorace lettrice e cinefila. Infatti diversi dei tuoi lavori fotografici sono reinterpretazioni coreografate e piuttosto fedeli di scene cinematografiche e romanzesche oltre che pittoriche. Altre volte però queste “conoscenze pregresse” su cui costruisci i tuoi scatti sono elaborate al punto da risultare criptiche e difficili da cogliere in mancanza di un testo o almeno del titolo del lavoro. Penso a scatti come Les idiots savants: un diverso stato (2004). Qual è il ruolo di questi elementi di cultura condivisa che spesso adotti come ispirazione per le tue foto?
C: Fai riferimento alla prima parte del mio percorso artistico, nel quale il mio approccio alla fotografia era fortemente narrativo: partivo da storie della letteratura o da parti di film, per organizzare delle scene da fotografare. Era tutto costruito ad hoc e l’obiettivo finale consisteva nel racchiudere una storia all’interno di una o più immagini. Pensavo al fotografare come all’atto di mettere sotto vuoto una storia. Così il racconto dei gemelli autistici di “les idiots savants” tratto da un libro di Oliver Sacks, o tutte le immagini della serie “Qualche volta, di notte” dedicate ai film di Antonioni. Ovviamente per comprendere questi lavori è necessario un contesto in cui devono essere raccontati, spiegati, resi comprensibili, altrimenti l’immagine, per quanto efficace dal punto di vista estetico-compositivo, rimane ostica. Il motivo della scelta di trasformare queste storie in immagine è dato dalla mia formazione: il processo di “conversione” è un modo analitico di guardare il mondo.
Les idiots savants (serie “Un diverso stato”, 2004)
Questo scatto è basato sulla storia di due gemelli affetti dalla rara sindrome del savant che furono osservati dal neurologo Oliver Sacks negli anni 60. A dispetto di un grave ritardo cognitivo avevano incredibili capacità mnemoniche. Tra loro giocavano ad elencare numeri primi in successione facendo a turni. Erano in grado di individuare a mente numeri primi di anche venti cifre.
G: Attraverso le tue parole stiamo comprendendo in che modo guardi alla realtà, come l’interesse verso diverse sfumature della realtà –o sue varianti- si sia evoluto nel corso della tua carriera e cosa, della realtà, devono raccontarci i tuoi lavori. Ci sono stati due eventi recenti particolarmente “reali” (o meglio con ricadute particolarmente concrete e pesanti sulla nostra realtà quotidiana) che hai dovuto vivere così come tante altre persone: la pandemia del 2020 e le alluvioni che hanno colpito la Romagna nel maggio 2023.
Durante la pandemia hai sviluppato il progetto Domestica, nel quale le tue due figlie piccole sono diventate di fatto co-autrici o critiche dei tuoi scatti. Ora consentimi di tentare uno spericolato parallelismo con Wittgenstein: ho letto che in seguito alla pubblicazione del suo Tractatus del 1921, si dedicò per 8 anni alla carriera di maestro elementare. Nel 1929 pubblicò un nuovo scritto citando esplicitamente i suoi studenti, assieme ad altri fattori esterni, come concausa di una sua mutata opinione sull’oggettività universale del linguaggio che descrive la realtà. Nello specifico mi è parso di capire che furono le osservazioni sull’uso improprio, creativo ed evolutivo che facevano del linguaggio i suoi giovani studenti, a spingerlo a riconsiderarne l’universalità. I significati sono sfumati e variabili in relazione al contesto ed ai parlanti. La stessa parola non significa sempre la stessa cosa. Insomma, la domanda ormai si è già scritta da sola: in Domestica cosa hai capito dall’osservazione della realtà attraverso gli occhi delle tue figlie?
C: Domestica è stato un atto di sopravvivenza alla situazione che tutti stavamo vivendo in quei mesi. Mi sono trovata ad essere chiusa in casa con due bambine piccole e ad interrompere la mia routine di lavori e viaggi. Ho reagito con un atto artistico imponendomi di produrre una buona fotografia ogni giorno e l’ho fatto con la collaborazione delle mie figlie. Ovviamente il nostro mondo si è ristretto ai confini della casa, dentro alla quale ogni piccolo elemento ha acquistato valore, trasformandosi in qualcosa di completamente diverso: una crepa in un muro del giardino è diventata un’isola, un piatto rotto si è trasformato in una riflessione sulle crepe del vivere di quei giorni e così via. Le bambine hanno offerto la loro visione fiabesca, infantile, estremamente creativa ed a tratti lucidissima.
Foto da “Domestica”, 2020
G: Veniamo al secondo evento straordinario che ha colpito ampie porzioni della nostra regione nel maggio 2023. Un’esperienza molto diversa, più breve e visivamente violenta… che per poco non ti ha portato a esplorare la fotografia di reportage. O forse no? Puoi parlarci di come una tua foto di giovani volontari che spalavano il fango sia finita sulla copertina di Internazionale?
C: A maggio 2023 è avvenuta la tragica alluvione in Romagna. Ho avuto la fortuna di abitare in una zona della città che è rimasta intatta, pertanto appena è stato possibile uscire sono andata a vedere quello che era successo portando con me la macchina fotografica. L’impatto è stato fortissimo, le prime immagini che ho scattato riguardavano il parco urbano di Forlì, completamente ricoperto da metri e metri di acqua. Per un attimo sono tornata col pensiero al progetto “La Terza Venezia” in cui, attraverso la post-produzione fotografica, avevo raccontato di una Venezia sommersa dall’acqua. Quando ho visto quello che era capitato alla mia città ho pensato che la realtà avesse sorpassato di molto ogni più fervida immaginazione. Dopo la natura ho fotografato le case sommerse, e solo in un secondo momento ho incluso le persone. Considera che non fotografavo persone da anni, ma in quel contesto mi sono trovata nel mezzo di una enorme mobilitazione degli “angeli del fango” e i ragazzi sono diventati parte integrante di quel paesaggio urbano devastato. Non avevo mai affrontato il tema del reportage e l’ho fatto in maniera intuitiva, utilizzando i codici linguistici ed estetici che avevo maturato in anni di fotografia artistica. Forse per questo motivo le immagini sono state notate dai redattori e dopo un passaggio su Instagram sono state pubblicate su riviste nazionali, con mia grande sorpresa. Per me è stato un lavoro molto intenso nel quale, per la prima volta, ho impregnato la fotografia di un valore sociale.
Sommersi Salvati, 2023
G: Mi ha sempre colpito quanto sia intricata ma allo stesso tempo spontanea e libera da qualsiasi malizia la relazione tra finzione e realtà nelle tue fotografie. Viviamo un’era che alcuni sociologi e politologi definiscono “post-truth” nella quale quasi ogni immagine, sia essa stata sapientemente prodotta allo scopo o semplicemente trovata e utilizzata, può divenire supporto visivo di una narrativa strumentale a qualche agenda politica. I tuoi scatti hanno invece il potere di evocare sempre qualcosa di universale, indefinito e proiettarci in una dimensione liminale che non si presta ad alcun tipo di inganno. E non solo le tue immagini hanno questa caratteristica di sottrarsi a qualsiasi strumentalizzazione divisiva, ma voglio spingermi a dire che guardarle fa sentire uniti come quando si guardano le partite della nazionale. Girando ogni pagina di Mirabilia faccio mia la scoperta di un luogo che prima nemmeno conoscevo e mi dico, “Eh sì, in Italia abbiamo anche questo!”, guardo le tue foto dell’alluvione e penso “Che popolo i romagnoli!” e riguardando le foto de La Terza Venezia penso che come un portale siano capaci di trasportarmi da una dimensione “borderline onirica” alla dimensione dell’infanzia. Quanto piacciono gli squali a mio figlio! Quanto mi piaceva l’Italia in miniatura alla sua età!
Per il progetto “La Terza Venezia” (2011) Camporesi soggiorna nella città lagunare raccogliendo molti scatti. Per le sue esigenze di rappresentazione molti altri sono stati invece scattati ai modelli architettonici della città che si trovano a Rimini all’interno del parco tematico “Italia in miniatura”. Foto da entrambi i luoghi sono state unite digitalmente e arricchite di ulteriori elementi estrapolati. Ne risulta un racconto dal taglio cinematografico in cui la distinzione tra reale e fittizio è del tutto irrilevante (oltre che difficile da cogliere).
G: Nel corso degli oltre vent’anni che ha ricoperto sino ad oggi la tua carriera hai usato una pletora di strumenti per condurci in questi spazi della coscienza attraverso i tuoi scatti. Hai scovato i luoghi più sconosciuti ed isolati; hai ricercato oggetti di scena e costruito plastici, piccole architetture e piccole foreste. Per noi è un onore grandissimo poterti aprire le porte dello showroom e metterti a disposizione il nostro archivio di oggetti. Nel corso degli ultimi mesi ne hai fotografati diversi, sia allestendo i tuoi set nel nostro showroom, sia portandoli nel tuo studio. Questi oggetti li hai usati in molti modi, a volte per rappresentare sé stessi, altre volte come incarnazione di qualcosa di completamente altro: due bottiglie da gin come i piloni di un Ghirriano cancello, vasi come soldati e bottiglie da seltz come bambine. Comprendo che sei ancora nella fase divergente di questo lavoro e che gli scatti che seguono potrebbero un domani ritrovarsi a far parte di progetti diversi. La domanda finale sarà perciò del tutto aperta: parlaci di cosa hai fatto con questi oggetti e se si può, e se hai già le idee chiare, di quali progetti potremo vedere da te in futuro, magari contenenti alcune di queste foto con le nostre vecchie cose.
C: Ti ringrazio per aver sintetizzato così lucidamente e con entusiasmo alcuni elementi-chiave del mio lavoro. Sicuramente la sperimentazione è sempre un elemento determinante che connota la mia ricerca, pur cercando di mantenere inalterata una certa riconoscibilità. L’idea di utilizzare i vostri oggetti all’interno di un nuovo progetto è nata leggendo il libro “Figure” di Riccardo Falcinelli, una preziosa analisi che ci svela il meccanismo per cui certe immagini funzionano più di altre. A partire da questa lettura ho individuato alcune fotografie celebri e ho provato a ricrearle con gli oggetti che ho trovato nel vostro magazzino, ragionando sulla forma e sui colori per mettere in secondo piano il contenuto. E’ apparentemente un lavoro giocoso, ma realmente si tratta di immagini complesse da realizzare il cui obiettivo è comprendere il potere della comunicazione attraverso l’armonia di forme e colori. La difficoltà è trovare gli oggetti giusti e comporli in una scena ad hoc; ho fatto tante prove che si sono rivelate fallimentari, mentre delle immagini riuscite sono veramente felice. Quando ne avrò un numero sufficiente le userò per mostre e pubblicazioni.